Il tempo manca. Il tempo passa. Il tempo muta. Il tempo è atmosferico. Il tempo è cronologico.
Il tempo è la primavera che arriva. Il tempo è la mia spossatezza pomeridiana: il tempo sono le ore di sonno sotto l’effetto quasi barbiturico dell’antistaminico. In un lasso che lo circoscrive il tempo conta il numero dei miei starnuti: pollini inclementi che l’anno passato (il primo in terra parmigiana) sembravano avermi quasi risparmiato e che adesso tornano con rinnovato vigore. Ed ecco che anche l’allergia misura il tempo: maggiore è il tempo trascorso in un certo luogo, maggiore la probabilità che finisca per sensibilizzarmi a qualche indigeno allergene.
Il tempo come unità di misura dello studio ( quest’ultimo inteso come attività simil accademica): quante ore di lezione, quante di applicazione su un testo, quanti i giorni dall’esame, quanti giorni tra un esame e l’altro, quanto tempo separa dalla fine della sessione.
Il tempo misura la mia forma fisica. Il numero di piegamenti sulle braccia, la sequenza di crunch in un lasso di tempo, quanto tempo in bici quanto a piedi per coprire una distanza: quanto dannato tempo trascorso su una sedia ad accumulare adipe su adipe sui miei fianchi. Ma il tempo, per converso, misura anche la distanza dal giorno in cui sarò libero di staccarmi dal mio rosso scranno dotato di ruote e manovella, per librarmi in sezioni di tempo (sempre lui, ovunque lui, onnipresente tempo) dedicate al salinico sudore ed alla abnegazione fisica, nella speranza di limare dal mio ventre i chili in eccesso.
Ultimamente, sempre più spesso mi ritrovo a pensare al tempo. Ed è proprio nelle partizioni di tempo in cui tutto volge progressivamente al nuovo, nell’imminenza (non troppo prospiciente) di un cambiamento, che finisco per pensare al tempo…
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